I Giuliano-Dalmati a Roma e nel Lazio

LA PRESENZA DEI GIULIANO-DALMATI
A ROMA E NEL LAZIO

La storia della comunità degli esuli

di Marino Micich

 

Premessa
La storia dei giuliano-dalmati è generalmente scarsamente nota, lo è  ancor meno quella riguardante la comunità di esuli che giunsero e si stabilirono a Roma e nel Lazio. Eppure si tratta di una presenza importante non solo dal punto di vista numerico ma anche dal punto vista culturale e della toponomastica cittadina.
L’esodo fu l’unica via che gli istriani, fiumani e dalmati poterono intraprendere dopo l’occupazione militare jugoslava che si concluse nei primi giorni di maggio del 1945. Il 1 maggio di quell’anno l’Armata Popolare jugoslava aveva occupato Trieste, contravvenendo agli accordi tra Tito e il generale inglese Alexander presi nel febbraio 1945 a Belgrado, secondo i quali agli jugoslavi era stato stabilito di fermarsi prima del capoluogo giuliano. Il 3 maggio 1945 cadevano Fiume e Pola dopo furiosi combattimenti tra l’armata tedesca forte di 87.000 uomini affiancati da circa 15.000 militi della Repubblica Sociale Italiana e l’Armata jugoslava ormai forte di 107.000 mila uomini. La guerra in Venezia Giulia fu molto aspra e sanguinosa, acuita da pesanti bombardamenti aerei. Il 31 ottobre 1944 era caduta per prima Zara in Dalmazia, distrutta da 54 bombardamenti che avevano causato la morte di circa 2.000 persone e la distruzione dell’87% delle abitazioni. Una distruzione immane voluta dagli jugoslavi per cancellare per sempre la Zara veneziana e ricostruire la Zadar croata. In quel periodo la sofferenza colpiva indistintamente slavi, italiani ed ebrei, quest’ultimi numerosi a Fiume e a Trieste vennero in gran parte deportati nei campi di concentramento tedeschi: Auschwitz, Buchenwald, Treblinka dai quali non fecero più ritorno. Non appena entrati gli jugoslavi nelle città e nei paesi istriani, iniziò a verificarsi il dramma delle foibe e degli annegamenti di migliaia di italiani inermi. Una prima fase degli infoiba menti ci fu in Istria dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e durò fino ai primi di ottobre di quell’anno. Almeno 12.000 furono i morti tra infoibati, annegati in mare e  fucilati, senza considerare i morti per stenti e malattie di quanti vennero deportati nei lager titini. L’intera operazione foibe fu compiuta dietro la regia della polizia segreta comunista jugoslava l’OZNA (Sezione della Difesa del Popolo) che si avvaleva di reparti militari speciali (in sigla KNOJ), per portare a termine le orrende uccisioni di gente per la maggior parte colpevole solo di trovarsi dalla parte perdente. Dietro l’epiteto di “nemico del popolo” si consumarono i delitti più gravi nei confronti dei presunti colpevoli.  A Gorizia per decenni è esistito il  “Muro ”, che divideva la città in due zone alla stregua di Berlino;  tale situazione è rimasta fino all’entrata della Slovenia nella Unione Europea.   
Questi tragici fatti sono oggetto, ancora oggi, di giustificazionismo se non addirittura di negazionismo, da parte di alcuni sedicenti storici che attraverso dubbie interpretazioni coprono ideologicamente le stragi di stato jugoslave compiute soprattutto a guerra finita e frutto di una politica autoritaria e antidemocratica da parte comunista. Le foibe non furono semplici reazioni contro le violenze dei fascisti italiani compiute nei confronti degli slavi, ma furono un’azione premeditata e studiata nei minimi dettagli dal nuovo regime comunista jugoslavo, che aveva in Tito il suo duce. Ma il mio compito è parlare di esilio, di profughi. In totale i profughi dalle terre giuliane e dalmate non fu inferiore a 300.000, in quanto in questa cifra vanno inseriti almeno 20.000 istriani e dalmati di nazionalità slovena e croata ma di cittadinanza italiana, che presero la via dell’esilio per sfuggire dal regime oppressivo di Tito. 

Gli esuli a Roma e nel Lazio.
Dopo il doveroso richiamo a determinati fatti storici, veniamo a quantificare la presenza degli esuli giuliano-dalmati a Roma e nel Lazio. Considerando le cifre riportate nello studio di Amedeo Colella, esule da Pola, allora vice presidente dell’Opera per l’Assistenza ai profughi giuliani e dalmati, si può arrivare a una prima quantificazione dei profughi. Si tratta pur sempre di un riferimento parziale, perché tale studio arrivò a conteggiare solo gli esuli  che erano passati per i campi profughi o nelle maglie dell’assistenza dell’Ente profughi fino al 1956. Tale studio non riuscì a individuare coloro che dal 1944 al 1946 avevano già lasciato in maniera avventurosa la propria terra oppure non considerava, le categorie dei ministeriali, militari, impiegati di grandi aziende che trovarono alloggio presso parenti o negli edifici di grandi gruppi assicurativi e bancari. Inoltre non prendeva in considerazione tutti quegli esuli che dal 1956 fino al 1960 riuscirono a ottenere il permesso dalle autorità jugoslave di espatriare. Pur con i suoi limiti Colella arrivò a contare oltre 250.000 profughi.
Concluso questo ragionamento risulta utile prendere in considerazione i dati del censimento nazionale del 1961, che per il Lazio riporta una cifra di 16.165 cittadini nati nei territori ex italiani.  Se a questa cifra si toglie una percentuale del 20% di italiani delle ex colonie si arriva a una cifra di almeno 13.000 italiani della Venezia Giulia, Fiume e Zara accolti nel Lazio. Esiste una dato certo negli archivi della Prefettura di Roma che riporta la presenza in quegli anni a Roma di oltre 8.600 giuliano-dalmati, mentre a Latina e provincia ne vennero registrati oltre 3.600. Assommando le due cifre ecco che non siamo lontani al numero complessivo di circa 12.500-13.000 esuli nella nostra regione. Oltre a Latina e a Gaeta altri centri di raccolta furono costituiti a Civitavecchia, Alatri “Le Fraschette” e a Farfa. Nella Capitale l’insediamento più numeroso fu quello dell’ex Villaggio operaio dell’E42 che nel 1948 divenne ufficialmente il Villaggio Giuliano Dalmata, il quale a sua volta, nel 1961, fu elevato al rango di Quartiere Giuliano Dalmata. Il Giuliano-Dalmata è il trentunesimo quartiere di Roma, indicato nelle tabelle stradali con i tradizionali numeri romani Q. XXXI. Il Villaggio Operaio dell’E42, era sorto sotto il governo fascista per alloggiare gli operai impegnati nell'allestimento dell'Esposizione Universale di Roma (che originò più tardi il quartiere EUR, rinominato nel 1965 in quartiere Europa).

Con lo scoppio della seconda guerra mondiale gli operai abbandonarono i padiglioni che, dopo una breve occupazione da parte di soldati americani tra il 1944 e il 1946, rimasero completamente abbandonati. Nel 1947, le prime dodici famiglie di profughi giuliani si insediarono nel villaggio provenendo dai fatiscenti androni della semi bombardata Stazione Termini. Fu il primo inizio del futuro Villaggio Giuliano. L'inaugurazione ufficiale, come appena detto, ci fu il 7 novembre 1948 con la consegna delle prime unità abitative agli esuli (si trattava delle camerate dell'ex villaggio operaio ristrutturate e riadattate a piccoli appartamenti),  alla presenza dell'allora sottosegretario alla Presidenza del consiglio dei ministri Giulio Andreotti e alla signora De Gasperi, consorte dell'allora primo ministro in carica Alcide De Gasperi. In quell’ occasione si celebrò il primo matrimonio della comunità. Il fiumano Armando Chioggia, classe 1921 sposò nella piccola cappella del Villaggio la romana Fernanda Tombesi, quasi a volere suffragare ufficialmente l'unione della gente fiumana, istriana e dalmata con la accogliente città di Roma. Il 4 novembre 1961 fu inaugurato sulla via Laurentina, per volere dell'Opera Profughi, un monumento costituito da un masso carsico per i morti di tutte le guerre con incastonata la scritta "AI CADUTI GIULIANI E DALMATI" e gli stemmi delle città giuliano-dalmate di Pola, Fiume e Zara. Il 10 febbraio 2008, in occasione della celebrazione del quarto Giorno del ricordo, è stato inaugurato in largo Vittime delle Foibe Istriane (piazzale antistante la stazione metro Laurentina) un monumento commemorativo per le vittime dei massacri delle foibe. L'opera è stata realizzata dal maestro scultore siciliano Giuseppe Mannino. Altre opere ed edifici presenti sono la Chiesa di San Marco evangelista a piazza Giuliani e Dalmati. Nella sede originaria dove era sita la chiesa intitolata a San Marco Evangelista, sorgono i giardini intitolati al maestro Lodovico Zeriav. All'interno dei giardini è situato il monumento della Lupa romana di Pola. Antistante all’entrata della chiesa parrocchiale si trova dal 1962 il mosaico “Esilio”, con accanto una stele riportante i nomi delle città perdute. Si tratta di una preziosa opera del pittore polesano Amedeo Colella, già funzionario dell'Opera per l'assistenza i profughi giuliani e dalmati. Nel Quartiere Giuliani c’è il vecchio edificio dell’allora scuola elementare intitolata a Giuseppe Tosi, ispettore scolastico di Pola, ucciso dalla polizia segreta ad Abbazia. Un'altra scuola in zona Cassia-Trionfale è intitolata a un altro dirigente scolastico Giovanni Soglian ucciso dai titini a Spalato. Ben due scuole nella Capitale ricordano le vittime della violenza jugoslava, ma ben pochi lo sanno.
Altri centri di accoglienza sorsero a Forte Aurelio, nelle caserme del complessi di Santa Croce in Gerusalemme, in alcuni androni della stazione Termini, nell’ambito della vecchia stazione Prenestina, in una parte degli stabilimenti di Cinecittà ed infine nel  villaggio di San Francesco ad Acilia. Nel 1948 ci fu addirittura l’idea di costruire la Nuova Pola in zona Castel Porziano, ma il progetto rimase sulla carta.
Roma, però, ricorda la Venezia Giulia anche col quartiere Trieste, in questo caso costruito dopo la Prima guerra mondiale. Anche in quella zona vi sono vie e piazze che ricordano soprattutto i toponimi giuliani e dalmati. In base allo Stradario giuliano-dalmata composto da me e da Gianclaudio de Angelini ben 126 vie e piazze di Roma sono dedicate a personaggi e a toponimi istriani e dalmati. Esistono piazza Fiume, piazza Istria, via Zara, Via Spalato, via Pisino, Via Rovigno d’Istria, via Cherso e quindi via Nazario Sauro,via Nicolò Tommaseo, via Matteo Bartoli, via Antonio Cippico, via Icilio Bacci, via  Luigi Dellapiccola (grande compositore esule da Pisino d’Istria) e Via Andrea Millevoi sottotenente, medaglia d’oro del nostro quartiere, figlio di fiumani e ucciso a Mogadiscio durante un agguato nel 1992. Millevoi era uno dei nostri soldati impegnato   nell’operazione di pace “Restore hope” in Somalia. Come Millevoi meriterebbero una via altri nostri esuli che hanno operato nella Capitale che non andrebbero mai dimenticati come Padre Flaminio Rocchi, Luigi Papo, Enrico Burich e altri ancora. Un’ultima via dal 2014 ricorda a tutti i cittadini la giovane insegnante istriana Norma Cossetto, quale simbolo di tante donne violentate e  infoibate.
Qual’era la composizione sociale degli esuli? Si è parlato spesso e impropriamente di un esodo di benestanti borghesi ma come indicano chiaramente le cifre del censimento ufficiale dell’Opera Profughi la realtà era ben diversa: 46% operai, 5,7% dirigenti e industriali, 7,7% commercianti e artigiani, il 23,4% erano donne, anziani e altre categorie tra cui contadini, pescatori, manovali. Scriveva a tal proposito Amedeo Colella nel suo studio: “ I profughi appartengono a tutti i settori sociali e, contrariamente a certa propaganda, la statistica ci dice che sono i lavoratori quelli che costituiscono il vero nerbo degli esuli. Il fenomeno trova le sue cause in esigenze di sopravvivenza e di libertà, nel bisogno di continuare a vivere nello spirito della civiltà latina, di praticare la religione dei padri, di educare i propri figli nelle tradizioni italiche e venete, in un onesto e generoso amor di Patria, oltre che nell’incompatibilità col carattere sociale, linguistico, culturale, economico e autoritario dell’ideologia comunista jugoslava…”. A queste chiare e semplici parole di Colella sento pienamente di aderire ancora oggi  dopo che nuovi studi sull’argomento hanno ribadito tali verità storiche. 

A livello nazionale la maggior parte dei profughi, almeno 70.000, si fermò a Trieste e altri 80.000 si stabilirono nelle grandi città dell’Italia Settentrionale dove c’era più lavoro, ma in tutte le regioni italiane si può trovare una presenza non trascurabile di esuli fino alla Sicilia e alla Sardegna. Oltre 80.000 dovettero partire poi per le Americhe, il Sud Africa e l’Australia in cerca di lavoro, dovendosi però dichiarare apolidi... Tale operazione fu svolta dall’International Refugees Organization (sigla IRO) e si esaurì nel giro di un decennio. Ecco il perché delle cifre a ribasso degli esuli sbandierate dai negazionisti.
Roma accolse gli esuli positivamente e non si verificarono gravi casi di intolleranza come avvennero  a Bologna, Ancona o a Venezia. In questi centri furono fermati più volte treni carichi di esuli e vennero rallentate e ostacolate le operazioni di sbarco da gruppi sindacali di sinistra fortemente ideologizzati. L’accoglienza nella città Eterna va detto che fu senz’altro positiva grazie anche al forte aiuto iniziale  prestato dall’Opera Pia pontificia e persino da elementi delle comunità ebraiche o provenienti da ambienti industriali, tra cui si ricordano Oscar Sinigaglia e sua moglie Marcella Mayer, ebrea triestina. Non mancò agli esuli l’aiuto di buona parte della nobiltà romana  animata da sentimenti di solidarietà nazionale. La principessa Torlonia riuscì ad istituire il Madrinato dalmatico di cui facevano parte anche la vedova De Gasperi e la signora Segni. I coniugi Sinigaglia fecero costruire con fondi personali i due collegi  per le bambine giuliane più povere al Villaggio Giuliano. Uno degli edifici in via Laurentina è oggi sede della Protezione Civile mentre il secondo in fondo alla vie dei Sommozzatori è la sede del Liceo scientifico “Aristotele”.  Altri benemeriti da ricordare in questa sede sono il prefetto Tommaso Ciampani, Guglielmo Reiss Romoli, Emanuele Ricceri e non ultimo il Segretario Generale dell’Opera Aldo Clemente che ci ha lasciato di recente.
Per quanto riguarda l’associazionismo degli esuli esso fu un formidabile collante della comunità giuliana e dalmata non solo a Roma ma in tutta l’Italia.

Si può brevemente dire che il primo nucleo nella Capitale organizzato di profughi giuliani fu il Comitato giuliano, sorto , nel giugno del 1944 subito dopo l’arrivo delle truppe anglo-americane in città. Il primo presidente del Comitato giuliano fu l’avvocato Antonio De Berti, già deputato socialista riformista nel periodo pre-fascista per la città di Pola. A Roma venne costituito anche l’Ufficio Fiume alla fine del 1945 con a capo l’antifascista fiumano Riccardo Zanella. Il quale godeva di un forte appoggio da parte di Alcide De Gasperi, che  sostenne almeno formalmente nei tavoli della Pace l’idea di ricostituire lo Stato Libero di Fiume sorto nel 1920 col Trattato di Rapallo e abbattuto nel marzo 1922 da un colpo di mano fascista. Non c’è un cenno di questo fatto nei libri di testo delle nostre università o delle varie accademie come di tanti altri. Gli esuli furono etichettati nostalgici del fascismo sconfitto o neo nazionalisti. Gli storici ideologizzati per difendere il mito della Resistenza cercarono, riuscendovi, a giustificare le ingiustizie del comunismo jugoslavo come semplice risposta al fascismo. Negando ai giuliano-dalmati il diritto di autodeterminazione e alla loro identità culturale antica di molti secoli. La verità è che gli jugoslavi si impossessarono delle terre istriane, fiumane e dalmate a guerra finita, operando una pulizia etnica e ideologica in grande stile per creare un nuovo ordine atto a legittimare il regime comunista di Tito, e non una semplice riposta alla politica fascista.      
Tornando alle associazioni , nel 1947, ci fu  la fusione dei comitati giuliani di Roma e del Comitato Nazionale Venezia Giulia e Zara dell’Alta Italia ed che così che nacque l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD) nel 1948 con primo presidente Fausto Pecorari, antifascista  triestino reduce da Dachau. Dopo di lui ricoprì la carica dell’ANVGD frate francescano, esule da Cherso, padre Alfonso Orlini. Un altro padre francescano, Flaminio Rocchi di Neresine (isola di Lussino), si occupò per anni dell’ANVGD e del problema dei beni nazionalizzati dagli jugoslavi e da indennizzare e così altri esponenti di questa associazione seguirono l’esempio dei padri fondatori: Paolo Barbi, Carlo Stupar, Lucio Toth, Antonio Ballarin, Renzo Codarin e altri . A Roma sorsero poi altre associazioni come il Centro Studi Adriatici, la Società Dante Alighieri di Zara e anche la Società Ginnastica Zara,il Coro “Istria Nobilissima” ma che ora non ci sono più. Le associazioni che sono ancora attive  a Roma oltre all’ANVGD sono: la Società dalmata di storia patria di Roma, l’Associazione Nazionale Dalmata e quindi la Società di Studi Fiumani con il suo Archivio Museo storico di Fiume e l’Associazione per la cultura fiumana istriana e dalmata nel Lazio. Tali istituzioni operano producendo libri, riviste e organizzando conferenze e seminari per il mondo della scuola. La Società di Studi Fiumani promuove anche un dialogo culturale con le terre di origine dal 1989, resosi possibile dopo il crollo dell’ex Jugoslavia,  e così hanno seguito l’ esempio altre associazioni. Tutto ciò sta a dimostrare anche la vocazione europea e non irredentistica delle associazioni degli esuli. Un discorso parte merita l’Associazione Sportiva Giuliana che nel 1959 riuscì a portare una squadra di pallacanestro in serie A. Oggi la sede dell’AS Giuliana invia dei Granatieri ha un solo campo di calcetto e dei campi di bocce ma non può permettersi più squadre di livello agonistico come in passato.

Molto ci sarebbe da dire, ma penso che in futuro non mancherà l’occasione di sviluppare nuovi e fervidi rapporti con la nostra città, unica al mondo, che ha saputo sempre e comunque offrire accoglienza alle nostre comunità, andando oltre alle interpretazioni ideologiche e alle strumentalizzazioni politiche che, seppur minoritarie, ancora sussistono in Italia. A Roma è sorta nel 2014 sotto l’amministrazione capitolina guidata dal Sindaco Alemanno,  ma è stata definitivamente inaugurata il 5 febbraio 2015 sotto l’amministrazione del Sindaco Ignazio Marino a dimostrazione che la storia degli esuli è da considerarsi come vuole anche le legge 92/2004, storia nazionale e non di parte. Roma Capitale, una volta di più celebrando dignitosamente in Campidoglio il Giorno del Ricordo testimonia alla nazione italiana e all’Europa comunitaria il suo, insostituibile, ruolo di mediazione culturale e civile. Solo il rispetto della storia e dei valori di civiltà che da essa ci provengono si potrà costruire una solida casa comune le cui fondamenta sono la libertà, la tradizione, la tolleranza e il rispetto per ogni forma di cultura.